"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

venerdì 25 maggio 2012

L'ipocrisia nell'omaggio alla memoria di Falcone e Borsellino


Nell'orgia retorica che sta accompagnando la rievocazione del ventennale dell'assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ormai divenuti - ovviamente solo da morti - gli eroi celebrati da tutto l'establishment politico italiano dovremmo avere la lucidità e l'onestà intellettuale di mettere alcuni punti fermi.
Anzitutto non dimenticare chi ha osteggiato, denigrato, ostacolato i due magistrati mentre erano ancora in vita e nel pieno della propria azione contro la mafia.
Dovremmo poi ammettere che la mafia non è stata affatto sconfitta ed oggi non è certo più debole di vent'anni fa. Il fatto che dopo le stragi del '92 e del '93 si sia in qualche modo occultata senza più agire in modo eclatante è perché nell'epoca berlusconiana ha potuto agevolmente condurre indisturbata i propri affari e i propri traffici. L'entità del suo fatturato annuo (120-130 miliardi di euro) e del suo patrimonio (stimato in mille miliardi di euro da Elio Veltri) dà conto della sua forza, di come rappresenti il primo problema italiano, della sua capacità di distorcere se non addirittura di determinare il funzionamento della democrazia di questo Paese e di come continui a costituire l'autentico convitato di pietra in ogni momento di svolta della vita nazionale (e ciò sembra testimoniato dall'attentato terroristico di Brindisi).

Infine, tra gli insegnamenti che ci hanno lasciato Falcone e Borsellino vi è quello che la mafia non può essere identificata e descritta riducendola solo ai rozzi e sanguinari assassini e sicari - i Provenzano, i Riina, i Brusca - che ne dirigono ed eseguono le azioni di brutale violenza ma che va compresa come un complesso sistema di potere di cui sono parte pezzi delle istituzioni, della politica, delle forze dell'ordine, della magistratura, delle gerarchie ecclesiastiche, del mondo degli affari, della classe dirigente. Ce lo hanno ricordato nella trasmissione Servizio Pubblico di Michele Santoro due autorevoli magistrati come Ingroia e Scarpinato: la mafia non potrebbe spadroneggiare nel nostro Paese da 150 anni se non avesse ramificazioni, complicità, agganci, referenti, alleati, zone d'ombra e di omertà nei palazzi del potere.
La stessa cattura di Bernando Provenzano è avvenuta, secondo la ricostruzione dei giornalisti di Servizio Pubblico, attraverso inquietanti trattative e abboccamenti e con una scansione temporale che non corrisponderebbe alle versioni ufficiali.
Sempre nella trasmissione del 24 maggio Marco Travaglio con la sua abituale precisione ha snocciolato tutti i nomi dei politici coinvolti in inchieste di mafia di cui, pure quando non condannati, è stata accertata la frequentazione e la contiguità con esponenti criminali e che nonostante questo continuano a sedere in Parlamento e a svolgere ruoli politici di rilevanza nazionale. La dimostrazione di quella opacità e ambiguità di un sistema dei partiti che continua ad omaggiare Giulio Andreotti che anche sull'appoggio della mafia ha costruito la propria carriera politica nazionale.
Come si può pensare (e gli elogi di Piero Grasso a Berlusconi per l'azione svolta contro la mafia lasciano esterrefatti) che i partiti di Dell'Utri e Cosentino, di Cuffaro e Mannino, di Lombardo, di Romano e di coloro - il PD - che insieme ad essi sostengono il governo Monti e la giunta regionale siciliana, trattano per future alleanze elettorali, progettano riforme costituzionali e del sistema dei partiti possano realmente volere l'annientamento della criminalità organizzata? Con quale faccia i politici di quei partiti possono omaggiare la memoria di Falcone e Borsellino, come possono chiedere ai cittadini di concedere loro consenso e fiducia in nome della coesione nazionale?





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