"Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata" (Margaret Mead)

giovedì 24 giugno 2010

La schiena dritta degli operai di Pomigliano

Sono stati versati fiumi di inchiostro e di milioni di bit sulla questione Pomigliano, il brutale ricatto posto da Marchionne agli operai dello stabilimento campano della Fiat (lavoro in cambio della rinuncia a regole e diritti, sanciti dai contratti nazionali, ed al diritto di sciopero, garantito dalla Costituzione).
L'attenzione di opinionisti, esperti di economia e blogger ha dimostrato la diffusa consapevolezza di trovarsi di fronte ad un momento di svolta per il futuro, in termini di condizioni e sostenibilità, del lavoro e del suo rapporto con il capitale e l'impresa. Non a caso sono stati evocati gli episodi della marcia dei quarantamila della Fiat e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile, cancellata d'autorità da Craxi con la complicità di CISL e UIL.
Solo il PD e Bersani, ipocritamente, hanno negato la funzione di grimaldello che le nuove regole che saranno definite a Pomigliano svolgeranno per l'intero sistema delle aziende ed il fatto che costituiranno un precedente in grado di scardinare e travolgere definitivamente diritti e garanzie.

Se fino ad oggi abbiamo pensato, nonostante l'evidenza dei numeri, che il lavoro precario fosse un'anomalia che prima o poi avrebbe dovuto essere sanata, il futuro che si prospetta è di un'Italia fondata di fatto e di diritto sul precariato e via via sempre più omologata, sotto la dittatura del capitale e del profitto, al sistema di relazioni sociali adottato nel Sud Est asiatico o nei paesi già facenti parte del blocco sovietico dell'est europeo.
Assume pertanto un valore tanto più grande il risultato del referendum di Pomigliano dove oltre un terzo degli operai, nonostante la pistola puntata alla testa, nonostante fossero in gioco non questioni di principio ma la propria sopravvivenza, ha avuto il coraggio di tenere la schiena dritta e di non abbassare la testa di fronte al ricatto della Fiat.
La vicenda si innesta nell'attacco al mondo del lavoro salariato prassi abituale per la destra berlusconiana: il tentativo di cancellare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e di imporre l'arbitrato obbligatorio per le controversie di lavoro, la legge 30 sul precariato, l'attenuazione delle norme in materia di sicurezza, gli interventi volti a fronteggiare la crisi finanziaria ed il deficit pubblico addossati essenzialmente sui ceti popolari.

L'accelerazione degli ultimi tempi su tali temi, unita al proposito dichiarato di voler modificare l'articolo 41 della Costituzione sull'utilità e finalità sociale dell'impresa privata, sembra essere espressione del disperato tentativo berlusconiano di recuperare credibilità e consenso tra i poteri forti imprenditoriali di fatto gli unici in grado, in assenza di un'opposizione degna di questo nome, di poterne determinare la fine politica.
L’importante quota di lavoratori di Pomigliano che, decidendo di non arrendersi, si è opposto all’accordo è un importante segnale. Di certo da solo non in grado di arrestare i propositi della destra politica e del potere finanziario-industriale, in assenza di un progetto alternativo di sistema economico e stante la debolezza del sindacato e della sinistra, cui va anzi imputato il primo e forse decisivo attentato (avendone sancito la divisione tra garantiti e precari) ai diritti dei lavoratori: la legge Treu. Ma potrebbe rappresentare un punto di partenza, l'indicazione di una linea di resistenza per rallentare la discesa verso il precipizio.

Le reazioni della Fiat e di Marchionne, come il ricco che resta sconcertato quando non vede adeguatamente apprezzata l'elemosina rivolta ai propri inferiori e che ora sembrano voler rinunciare al progetto di riportare la produzione della Panda in Italia, sembrano dimostrarlo. Non c’è a mio avviso da strapparsi i capelli riguardo a questa decisione.
Gli interessi della Fiat non coincidono con quelli del Paese, tanto più nel quadro dell’evoluzione internazionale del Gruppo, e non sono bastati cinquant’anni di incentivi statali a fondo perduto e di subordinazione della politica nazionale dei trasporti per guadagnare un po’ di riconoscenza da parte dell'azienda verso l'Italia. Un piano industriale che preveda la produzione di milioni di nuove auto, a fronte di un mercato mondiale già saturo e per il quale si impone al più presto una riconversione energetica, nasce già morto e renderebbe inutili i ‘sacrifici’ dei dipendenti di Pomigliano.
Si colga pertanto l'occasione per ragionare della situazione e delle prospettive dell'economia italiana e mondiale, abbandonando il mito impossibile di uno sviluppo infinito destinato a scontrarsi ben presto con la limitatezza dell'ambiente e delle risorse naturali.
Si abbandoni, almeno da parte dei democratici, la subalternità alla logica del divide et impera che porta a raccontare il lavoro attraverso luoghi comuni e ricostruzioni parziali. Ecco il conflitto tra garantiti e precari, tra vecchie e nuove generazioni, con le prime colpevoli di godere ancora di antistorici privilegi (la pensione, il contratto a tempo indeterminato, persino la malattia pagata!). Ecco la contrapposizione tra lavoratori del Nord e del Sud, tra italiani ed immigrati. Ecco la criminalizzazione dei dipendenti pubblici, additati come fannulloni e parassiti, o di quelli dell'Alitalia, finalizzata ad agevolare un buon affare per la cricca dei soliti amici.
Se la Fiat può essere libera di perseguire la propria politica aziendale ed i propri obiettivi, tanto più deve esserlo un'intera comunità nazionale nel tutelare gli interessi collettivi ed il bene comune.
E' possibile progettare una nuova politica dei trasporti, liberando le città dalla morsa soffocante delle auto? E' possibile dare vita, nelle fabbriche dismesse e con le maestranze disponibili, a nuove iniziative industriali con l'apporto di capitali da parte delle Istituzioni locali e con il contributo tecnologico e nella ricerca di soggetti pubblici quali Finmeccanica e CNR per la realizzazione di produzioni sostenibili come auto elettriche (dei quali proprio gli Enti locali dovrebbero essere i primi acquirenti), impianti eolici o pannelli solari? E' possibile parlare di un welfare da rifondare sulla base della disponibilità per tutti del reddito necessario alla propria esistenza?

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